Monday, August 16, 2004

Bush e i media

C'è aria di rimorso nella stampa americana, almeno nei giornali più autorevoli. Rimorso per aver "creduto" a Bush, per non averne messo in dubbio la leadership, e per non aver messo in discussione le motivazioni per la guera in Iraq.
Da quando è stato eletto, secondo molti Bush ha ricevuto un trattamento molto favorevole dai media. (Secondo molti altri, anche durante la campagna del 2000 Bush ha goduto di una stampa migliore di quanto non meritasse. Alcune ricerche dimostrano che ha comunque avuto un trattamento migliore di Gore.) Probabilmente, dopo la crisi dovuta alla conta dei voti in Florida, la stampa ha sentito la responsabilità di aiutare la nazione a ricomporre una frattura storica potenzialmente dannosissima, e ha limitato le critiche per non indebolire la legittimità di un Presidente divuenuto tale in modo roccambolesco e discutibile.
Poi è venuto l'11 settembre e ha fatto il resto, trasformando Bush nel leader di una nazione ferita e in guerra permanente con un nemico quasi invisibile e difficile da comprendere. La stampa ha seguito l'opinione pubblica e si è stretta intorno al Presidente.
The Bush Dyslexicon documenta questo atteggiamento benevolo dei media tradizionali verso Bush. Si aggiunga poi che oggi il partito Repubblicano può contare su un apparato mediatico di tutto rispetto, che comprende i seguitissimi talk show radiofonici, alcuni giornali (il New York Post, il Washington Times, le pagine editoriali del Wall Street Journal) e soprattutto la Fox News Channel, il canale all-news di Ruper Murdoch che ha nettamente scalzato la CNN nella sua categoria.
Poi è venuta la guerra in Iraq, e anche qui la stampa ha probabilmente rinunciato, almeno in parte, a fare il suo dovere. Qualche giorno fa il Washington Post, il giornale reso famoso dalla scoperta dello scandalo del Watergate, ha fatto ammenda, con un lungo articolo in cui ha raccontato le difficoltà di un reporter che aveva informazioni che mettevano in discussione l'esistenza di armi di distruzione di massa (WMD, le chiamano qui con un'abbreviazione che dà l'idea di quanto siano abituati a discutere di questo tema). I suoi articoli non venivano mai pubblicati, o uscivano in 14° pagina, mai in prima.
Alcuni hanno definito questa linea giornalistica "Don't ask, don't ask". Non chiedere e basta. Non mettere in discussione un Presidente che va in guerra sulla base di informazioni dei servizi segreti che non possono essere divulgate. Avrà i suoi buoni motivi, ma non può spiegarli. Bush ha avuto per lungo tempo il beneficio del dubbio dai giornali e anche dall'opinione pubblica, finché non è emerso che l'uranio impoverito del Sudan non esisteva e che non c'era nessuna prova che Saddam avesse o potesse fabbricare WMDs.
A questo punto è partita l'infornata di libri di denuncia e di attacco al Presidente, alcuni dei quali da giornalisti della stampa di qualità.
Ora che ci avvicinaimo alla fase conclusiva della campagna elettorale, sembra che i giornali stiano cercando di impostare un nuovo corso, analizzando e mettendo in discussione le proposte politiche dei candidati, anziché parlare solo di come va la canpagna elettorale.
Se per Kerry si tratta solo di promesse elettorali - e, va detto, sta emergendo una tendenza molto pericolosa del candidato Democratico a promettere troppo e con troppa facilità, dai tagli alle tasse ai nuovi servizi sociali, dal ritiro di parte delle truppe americane dall'Iraq alle proposte sui temi locali - per Bush si tratta in gran parte del suo record, di quello che ha fatto in questi anni alla Casa Bianca, anche perché il Presidente non ha ancora annunciato il suo programma per la rielezione, e forse non realizzerà comunque un programma troppo articolato. (Sembra infatti che un Presidente che parla troppo dei prossimi quattro anni dia l'idea di non avere risultati positivi per i quattro anni del suo primo mandato: Bush senior e Carter, che persero la rielezione, ebbero in effetti questo problema.)
Così nei giorni scorsi abbiamo letto editoriali di Paul Krugman sul New York Times, di David Broder sul Washington Post e questo stesso giornale sta dedicando un'analisi dettagliata alla situazione economica del Paese in rapporto alle politiche dell'amministrazione Bush. Da tutti gli editoriali emerge un giudizio impietoso: Krugman - autore anche di un libro di denuncia sull'amministrazione - mette in ridicolo lo slogan "ownership society" con cui Bush sta caratterizzando le sue proposte di politica economica e sociale. Broder accusa Bush di due colpe: aver portato la nazione in guerra con un Paese che non l'ha aggredita, senza poi trovare le WMD, e avere abbassato le tasse anziché alzarle per pagare le spese militari. Le analisi del Post, molto curate e approfondite, esprimono sostanziale scetticismo sulla riuscita dei piani del Presidente.

Poi oggi capita di leggere, sullo stesso giornale, un bell'articolo sulla campagna di Bush:

Anyone who doubts it should spend some time watching the shirtsleeves campaign. In five days of energetic campaigning through five swing states, Bush looked and sounded like someone dropping by a neighbor's lawn party -- no coat, no tie, rolled-up sleeves, and conversational speeches in which he implored voters to "put a man in there who can get the job done."
In loosening his style, Bush tightened his message. Fielding friendly questions at "Ask President Bush" forums, or lathering up the crowds at pep rallies like the one here on Saturday afternoon, he presented his case for reelection with a force and fluency that sometimes eluded him at important moments over the past year.
The message Bush offered at these events has been familiar for months: that he is a plain-spoken conservative who knows his mind and is resolute in crisis, and that his Democratic opponent, Sen. John F. Kerry, is the opposite on each count. But crafting an argument and finding the words and cadences to deliver it effectively can be different things.
Two weeks before the Republican National Convention, Bush's performances in recent days suggested someone who has settled on a comfortable marriage of message and style. Applause lines, anecdotes, and wisecracks at Kerry's expense rolled off at a steady clip. There was a buoyant, jaunty manner that announced a politician who is relishing his fight.

Siamo, sembra, alle solite. La stampa parla di policy issues nelle pagine editoriali (in fondo al giornale, sicuramente meno lette degli altri articoli) e parla di performance e image negli articoli di cronaca della campagna. Con il risultato che Bush, criticatissimo dai commentatori per le sue politiche, appare invece in forma smagliante per la sua verve dialettica in campagna elettorale.
Tutto nello stesso giornale, tutto a pochi giorni di distanza, se non lo stesso giorno.
Se non riuscirà a convincere la nazione che ha fatto la scelta giusta in Iraq e che ha un piano per l'economia, forse Bush può provare di nuovo a sedurla e a farle dimenticare le sue pecche personali.
Non si aiuta certo Kerry, che continua ad ammassare promesse senza che, almeno in apparenza, abbia un piano per pagarle con il denaro pubblico, tanto che il New York Times parla di "somiglianza di stili" tra Bush e Kerry nella politica fiscale: entrambi sono dei "fiscal irresponsibles".
Insomma, se non c'è davvero differenza (percepita) nella competenza, perché non giudicare in base all'affidabilità? Nel qual caso, almeno per quanto riguarda l'empatia e la sim-patia, Bush non ha rivali. Kerry farebbe meglio a capirlo e cominciare a farsi prendere un po' più sul serio.

Scrive qualcosa di analago il Boston Globe del 17 agosto:
If Bush and Kerry are both liars, it gives voters a reason to rationalize sticking with Bush." Kerry offers the "promise of a credible voice," and "therefore, Bush's one hope" for winning "rests in changing that perception about Kerry." Bush "must somehow turn this election into a choice between liars."